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   PIETRANGELO BUTTAFUOCO


.... E' un inno alla vita in ciò che essa ha di più sacro: la memoria. È la descrizione delle proprie radici, dell’amore filiale che eredita dai padri ciò che di più caro essi hanno costruito: i valori in cui hanno creduto, che hanno testimoniato con la coerenza e l’esempio dello loro vita, con le azioni che hanno caratterizzato la loro quotidianità.

E c’è quella che Nietzsche chiamava la storia antiquaria, la piccola storia della memoria, delle tradizioni di una comunità, quella che nessuno conosce, che scorre lontana dai grandi eventi, che non ha nomi altisonanti da evocare, ma è fatta di oggetti di piccole cose che hanno riempito l’esistenza di chi è vissuto prima di noi.

Il museo realizzato da Carmelo Vicino e Carmelo Verna con grande sforzo e grande passione riesce nell’impalpabile magia di fermare il tempo e anzi di riportarlo indietro. Allora Agira viveva il tempo scandito nel lavoro degli artigiani, quando la vita si svolgeva lassù, sotto il castello e la giornata era ritmata dai rumori delle botteghe, dagli odori delle cucine, dai versi degli animali accuditi nelle stalle. La vita era semplice, e i mestieri rigorosamente caratterizzati.

Il museo restituisce l’atmosfera del tempo andato: ci sono gli attrezzi del contadino, fedeli compagni della sua giornata di fatica e sudore. La mangiatoia per gli animali, le bisacce e "u bummulu" pieno d’acqua per cercare ristoro al caldo e alla fatica. Rinati a nuova vita, ecco gli strumenti del sarto, che cuciva i vestiti dei suoi concittadini spesso di velluto, perché durassero più a lungo possibile. Rivivono gli utensili dal ciabattino, quelli del fabbro, del falegname, gli alambicchi dello speziale un po’ mago e un po’ medico capace di dispensare il consiglio giusto per ciascuno.

Altri oggetti testimoniano dei poveri arredi delle case dei nostri avi: il lavamano, il vaso da notte, la cassa per riporre la biancheria, la culla per i bambini piccoli, l’armadio grande con lo specchio, coperto da un velo nero in caso di lutto, i tanti strumenti che una buona massaia ordinava nella sua cucina, i mobili indispensabili a creare il focolare domestico: la credenza per riporre piatti e bicchieri, la madia per impastare la farina, il focolaio per cucinare, la giara per l’olio, i piatti di terracotta per conservare le varie pietanze. Accanto agli oggetti, non poteva mancare la descrizione delle tradizioni che davano carne alla vita dei nostri avi, dei riti che caratterizzavano la loro esistenza. Il patto matrimoniale seguito delle regole fisse, inderogabili, quando si celebrava con il benestare delle famiglie ufficiali ed altre non meno codificate quando i due innamorati mettevano in atto la "fuitina" perché il loro amore era contrastato dai rispettivi genitori per il diverso ceto sociale di appartenenza delle famiglie, o le condizioni economiche disagiate rendevano impossibile affrontare le spese del matrimonio. Nel primo caso si organizzava il fidanzamento ufficiale, "U Nzingu", l’incontro tra le due famiglie, con il fidanzato che portava "U brillantino" alla fidanzata. In questa occasione, si stabilivano le condizioni che avrebbero regolato gli incontri tra i due giovani. Dopo la "fuitina", i due fidanzati si sposavano nella sagrestia della chiesa, di mattina presto alla presenza dei soli testimoni, per "riparare" al peccato commesso.

La vita della comunità era scandita dell’arrivo dei cantastorie in occasione delle feste che rallegravano il pubblico con racconti avvincenti, spesso sanguinoso, di fatti accaduti in un lontano e favoloso passato, raccontato con l’aiuto di un cartellone colorato, scandito in quadri, issato nella piazza del paese. Si potrebbe definirlo, l’antenato della televisione.

La comunità non dimenticava le persone meno abbienti a cui offriva aiuti di vario genere. Vi era all’assistenza medica gratuita, fornita dal medico della condotta. Perfino nel momento estremo del funerale, chi non poteva permettersi di pagare le esequie, poteva contare sulla solidarietà pubblica che approntava la bara e un carro funebre senza addobbi.

E' dunque, quello di Carmelo Vicino, un lavoro che testimonia l’attaccamento dell’amore per le proprie radici, senza il cui ricordo l’uomo vive spaesato e senza storia, anonimo come gli abitanti di questi immensi alveari umani, che sono i condomini di tante periferie urbane, dove un numero sul citofono è quel che rimane di una famiglia e della sua storia.


 
 
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